Mettere al mondo, prendersi cura, lasciar andare: una storia di generatività in casa nostra.

A debita distanza dai fatti, un anno circa che segue a un tempo di preparazione ancora più lungo cominciato nel discernimento personale di tutte le persone coinvolte intorno al 2018; dopo aver custodito tra noi il passaggio, averlo condiviso, averlo vissuto con fremito e preoccupazione, essercene qualche volta fraternamente commossi, penso sia ora di dare ascolto alle insistenze di certe socie che si occupano di comunicazione, e dar conto alla nostra intera rete del passaggio di testimone interno, che ha visto dal giugno 2020 il nostro fondatore Salvatore Carbone cedere tutte le cariche e le responsabilità precedentemente ricoperte nella nostra Cooperativa e nella nostra Società Agricola a un nuovo CdA, che personalmente presiedo.

Chi ha un po’ di dimestichezza col Terzo Settore e le sue storie organizzative sa che, all’incanto delle molte virtù, occorre pure aggiungere qualche vistoso difetto, in parte condiviso con quel che è il modello di impresa italiano, prevalentemente medio-piccolo e familiare, o forse con un più diffuso modo d’essere della nostra società in molte delle sue espressioni: un certo fissismo delle cariche, una certa incapacità di successione e alternanza nelle posizioni di vertice o controllo, una assegnazione di poteri e responsabilità stagnante, attanagliata da conservazione e paura, quando non da più meschine rendite di posizione, fanno sì che il “ricambio organizzativo”, la divisione e successione nelle responsabilità in termini procedurali, ma ben più in termini sostanziali, sia complessivamente scarso.

Tanto in termini di longevità dei mandati quanto in termini di età media dei ceti dirigenti, i nostri assetti organizzativi rasentano la perpetuità, producendo una cristallizzazione degli assetti vicino all’immobilismo e, quel che è peggio, una paralisi nei percorsi di crescita, promozione e inclusione delle generazioni successive, tenute in uno stato di semi ibernazione nelle proprie posizioni subalterne anche quando messe a bordo, per imprescindibile necessità, nelle organizzazioni e nelle imprese.

La cosa ha un riverbero tutto particolare in molti enti del terzo settore, e in specie in quelli a costituzione carismatica. Intendo per “costituzione carismatica” quel tipo di costituzione materiale che ha poco a che vedere con norme e statuti, mentre ha a che fare con la personalità del fondatore, con le sue intuizioni, con la storia delle origini e la fase pionieristica degli esordi. Ne scrissi nel 2014 commentando e analizzando i fatti di Roma Capitale (qui; per inciso rileggendo quelle note ritrovo molta e sorprendente coerenza con i fatti che qui racconto).

Vorrei precisare che per un ente possedere un’eredità simile è un privilegio e un dono, non un fardello. Nulla è più compromissorio per organizzazioni del terzo settore, di per sé espressioni della vitalità sommersa nel corpo sociale e delle sue risorse latenti, che a qualcuno tocca slatentizzare, che essere il frutto di un freddo calcolo, di un disegno tecno-imprenditoriale, anche là dove sostenuto dal più solido dei business plan.

Personalmente rivendico il primato della passione e della visione divergente delle cose che in Salvatore e negli altri fondatori ha generato La Nuova Arca, nella convinzione che solo rimanendo fedeli a quanto di pre-pensato e gratuito ci ha sopraggiunti ci si mantiene liberi e fecondi nell’intero proprio arco di vita.

Il punto, in molte storie carismatiche, è però l’appropriazione del carisma da parte del fondatore. Un’appropriazione che ha i tratti in fondo della mesta resa, in quanto un carisma che ha origine in qualche regione dell’Ego piuttosto che sorgente e fine in altro, semplicemente carisma non è. Degenera immediatamente in patologia, in blocco spirituale e creativo, che impedisce al dono, l’ispirazione che quando è autentica parla da un altrove, e di ben altro che del sé, di tradursi in vita, incorporandosi in una soggettività vitale e organica capace di proiettarsi in avanti, superando di molto la gittata di chi individualmente l’ha concepita.

C’è nel fondatore qualcosa del veggente, ma per come lo intendeva Rimbaud: un espropriato, un consegnato alla radicale alterità di ciò che lo ispira, e dunque un uditore obbediente prima che un autore. Ci ha però messo un po’ la teoria estetica, per prolungare il paragone, a far professione di umiltà, a deidealizzarsi e correggersi su un punto capitale: l’ideale (romantico) dell’ispirazione è un nulla senza il lavoro umile, fabbrile, artigianale dell’artista che lotta col materiale che gli resiste, tra mille tentativi e spunti, sino a suggerirgli la forma. La bottega dell’artista (e del fondatore che gli somiglia come una goccia d’acqua) è cura tenacissima e protratta nel tempo col proprio oggetto, finché sotto le mani gli diventi “soggetto”.

Quanto è vero rispetto a un’organizzazione e a chi la conduce: lotta quotidiana con la materia inerte della storia, delle relazioni e delle congiunture, fitta di mille vincoli e impedimenti, di avversità ed ostacoli, da riconoscere e trasformare in virtualità latenti; contraccolpo continuo e soprassalto della realtà sui propri schemi; lavoro con e per le relazioni, a volte in direzione ostinata e contraria fino allo scontro, perché tra il “capo”, noi e tutti si insedi quell’obbedienza comune all’altro, sempre maggiore delle nostre idee ed esigenze.

Occorre una straordinaria generosità per generare vita, ma neppure questa è sufficiente; occorre, per insediare l’altro nella vita, soprattutto libertà.

La fine svela l’inizio: che il tempo del mandato di Salvatore sia stato un lungo mettere al mondo, e poi una cura e manutenzione costante, in sé intessuta di obbedienza più che di controllo, poteva rivelarlo solo l’atto di generazione finale del “lasciare andare”.

Un lasciare andare fedele alla missione, che ci è chiara nei suoi lineamenti più o meno da sempre: esistiamo organizzativamente riferiti ad altro da noi, per generare comunità, e cioè in fondo cospirando quotidianamente al nostro tramonto. Personalmente però non immaginavo, né alcuno di noi pianificava, che questo tempo giungesse presto, o relativamente così presto, 13 anni dopo la costituzione della Cooperativa, 11 dopo la nascita de La Tenda di Abramo, 8 dopo la nascita della Società Agricola. Qui ha contato la sua decisione personale, e persino la sua pressione, a cui chi lo conosce bene sa che è difficile resistere.

Nessuno di noi si sarebbe non dico proposto, ma neppure sognato di chiedere a lui una successione, eppure oggi tutti avvertiamo la sua scelta come un dono, forse il più prezioso che ci ha fatto, e come un mandato, a ripeterne negli anni a venire lo schema di fondo: mettere al mondo, aver cura, lasciare andare, cioè mettere in moto la nostra libertà creatrice e immaginativa, che è la sorgente antropologicamente più autentica, consci (l’ho scritto nei nostri bilanci sociali) di cosa sia generare comunità, che libertà è richiesta a chi la serve, perché la comunità sia il dominio indiscusso di un “noi” costruito su relazioni libere e liberanti, dove la vita si propaga e si comunica da persona a persona.

Nel frattempo Salvatore, che a scanso di equivoci gode di piena e buona salute, si è dedicato a mettere al mondo altro. Restate connessi…

Antonio Finazzi Agrò, presidente de La Nuova Arca