Che sia dato allora anche a noi di vivere in fiducia e speranza la nostra vita.

 “… And death shall have no dominion” (Dylan Thomas)

Tregua, pace, salvezza. Lo grida l’umanità travagliata da guerre, discordia, ingiustizia che producono i frutti avvelenati della miseria e della morte. Lo gridano le nostre società stremate. Ma lo grida, se lo ascoltiamo con sincerità e coraggio, il nostro cuore: “Ho detto: Dio. Voglio la libertà nella salvezza: come perseguirla?” (A. Rimbaud, Una Stagione all’Inferno). Lo sa bene chi dedica tempo e passione ai più vulnerabili; cosa ci spinge verso gli altri, se non un prorompente desiderio di integrità e tenerezza che tocca anche noi?

«Desiderare, desiderare disperatamente, desiderare fino al dolore e allo sconforto, fino al grande vuoto amaro, desiderare che sia altrimenti, desiderare la fine delle crudeltà, delle pazzie, della stupidità, dell’abietto, desiderare l’allegria, la luce, la tenerezza, avere così fame, così sete, di un mondo diverso e di essere diverso» (Maurice Bellet, Il Pensiero che Ascolta).

Ma la salvezza, come la rivoluzione, non è un pranzo di gala. È una sovversione, un ribaltamento dei valori, un nuovo che erompe annichilendo il passato. È vita che sopravanza e, letteralmente, giudica condanna e uccide la morte.

La salvezza non sorge il mattino di Pasqua, non è solo lì che dobbiamo cercarla, quando i fatti si sono ormai compiuti e l’eco del “prodigioso duello” tra Morte e Vita si è ormai acquietato. Così come non è solo alla fine della vita che la salvezza ci attende.

No, la salvezza è una presenza misteriosa e una storia. Va presentita e attesa nei nostri venerdì, quando intorno a noi è tenebra e ombra di morte. Va fiutata nei nostri sabati, dopo ogni fallimento, quando invisibile è chiusa nel grembo della terra, come il seme nella zolla.

La salvezza va cercata nello sguardo delle nostre sorelle e fratelli crocefissi e sconfitti, annegati e respinti, nel momento stesso in cui tutta l’ira di Dio accumulata e repressa per i delitti che rincorrono i delitti, per il sangue di Abele che grida al cielo, sembra stia per abbattersi su di noi.

Lì inizia ogni volta una possibile storia di salvezza. Quando si è capaci di avvertire in ogni fibra del proprio animo che tutto, davvero, chiede salvezza. Perché non siamo fatti per morire, ma per nascere.

Quando non ci si arrende alla banalità dell’ “è così che va la vita”. Quando in corpo subentra la ribellione per ogni ingiustizia, per ogni dolore dell’altro che è della stessissima sostanza del nostro. Quando all’indifferenza subentra la compassione, e alla compassione la solidarietà che ci lega come un unico popolo. Quando la separazione cede il passo al legame, l’arrogante presunzione al fiducioso riconoscimento che l’altro è, esiste, ed è bene che sia.

Prima, molto prima che fosse Pasqua, il volto del Cristo morente si posava sul compagno di supplizio per desiderarlo ancora con sé, si volgeva ai suoi carnefici per chiederne il riscatto, e infine si levava a quel Cielo fattosi così enigmatico e impenetrabile e chiuso, davvero refrattario ad ogni possibile fede, gridando e pregando e confessando ancora una volta la sua fiducia, la sua speranza contro ogni speranza, nel Padre, l’Abbà.

Quell’uomo, che in fiducia e solidarietà aveva vissuto per tutta la sua esistenza, contestando con la sua vita ogni immagine sacrilega di Dio e dissacrando ogni possibile potere figlio di quegli stessi sacrilegi, giunse – ci dice l’annuncio cristiano – all’alba di Pasqua, perché davvero “non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere” (Atti 2, 24).

Che sia dato allora anche a noi, care amiche e cari amici, vivere in fiducia e speranza la nostra vita, nella continua ricerca del legame reciproco, in solidarietà e vicinanza, rallegrandosi con chi è nella gioia, piangendo con chi è nel pianto, perché la vita buona e sensata sia tra noi.

Con le parole di don Tonino Bello:

«Che la Pasqua sia per tutti una memoria spiritualmente eversiva. Solo allora questa allucinante vallata di tombe che è la terra, si muterà in serbatoio di speranze.
Chi spera, cammina: non fugge. S’incarna nella storia, non si aliena.
Costruisce il futuro, non l’attende soltanto. Ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma. Ha la passione del veggente, non l’aria avvilita di chi si lascia andare. Cambia la storia, non la subisce.
Ricerca la solidarietà con gli altri viandanti, non la gloria del navigatore solitario.
Chi spera è sempre uno che “ha buoni motivi”, anche se i suoi progetti portano sempre incorporato un alto tasso di timore
».

Auguri amiche e amici, buona Pasqua da tutti noi!

Antonio Finazzi Agrò, presidente de La Nuova Arca